Il dono del talento non è abbastanza. Bisogna saperlo mettere a frutto. Lo racconta anche la Bibbia, come chi oggi lo mette a servizio degli altri
Quando si pensa al talento la prima cosa che viene in mente è una dote innata, una specie di grazia offerta dalla sorte che ci rende diversi (o migliori) degli altri in qualche cosa quasi come se ne fossimo sorpresi noi per primi. Si parla insomma del dono del talento. Ma è davvero così?
Si e no. Si può parlare di dono del talento nella misura in cui, come abbiamo già detto altrove, si riconosce un talento quando, imparando ad ascoltarsi e a prestare attenzione alle nostre doti, anche le più piccole, ci vengono in mente cose in cui siamo bravi da sempre, quasi da prima di rendercene conto. Attività o comptenze per le quali ci siamo sentite o sentiti portati ancora prima che qualcuno ce le insegnasse. Sicuramente questa è una delle caratteristiche più importanti per riconoscere e scoprire il proprio talento.
Cos’era il talento
Tuttavia, quanto questa idea di talento come sia frutto più di una convinzione che della realtà, lo dimostra la nascita stessa della parola. Il concetto di talento ha, infatti, origine biblica. Il termine è citato in particolare nel Vangelo di Matteo. Il talento, nel suo significato antico, è una unità di misura, utilizzata in particolare nel commercio. In questo contesto, la si poteva anche intendere come una sorta di moneta. Questo perché gli oggetti scambiati venivano valutati in rapporto a quante unità di talenti di metallo prezioso corrispondevano. A quanti talenti valevano, in sintesi.
Nella parabola, un ricco affida ai suoi servi dei talenti: al primo cinque, al secondo due, al terzo uno solo. I primi due investirono – meglio, misero a frutto – i talenti che avevano, mentre il terzo rinchiuse il proprio talento al sicuro – più precisamente, sotterrò – il suo. Quando il padrone tornò, si congratulò coi primi due e rimproverò aspramente il terzo, che si era limitato a aver cura di non perdere quello che gli era stato dato.
Il significato dei talenti
A prima vista, pare quasi un elogio della voglia di far soldi, e si potrebbe non capire perché il padrone punisca chi ha pensato innanzitutto a nascondere alla vista quello che gli era stato dato. Se però pensiamo al significato figurato che ha assunto oggi la parola talento, anche il senso simbolico della parabola diventa evidente. Cosa fare dei talenti che abbiamo affidati alla nostra vita?
Il dono del talento è senza dubbio il primo passo. Ma poi, è importante che non sia nascosto agli occhi di chi deve vederlo e riconoscerlo, in sé e negli altri.
Ma ancora di più, bisogna essere capaci di metterlo a frutto. I due servi che avevano investito i propri talenti non li hanno visti crescere come gli zecchini di Pinocchio. Hanno lavorato, si sono impegnati, perché quello che avevano diventasse qualcosa di più. Hanno rischiato, e avrebbero potuto perdere quello che avevano. Così come, a volte, quando ci si impegna per mettere a frutto il proprio talento, può capitare di avere brutte battute d’arresto, a volte di credere di sbagliare o aver perso tutto. Con l’impegno e la dedizione, però, anche se può succedere che a qualcuno serva poco tempo, a qualcun altro molto, i talenti diventino di più, più vistosi, ci portino più soddisfazioni.
Il modo migliore per onorare il dono del talento che ci sembra di avere ricevuto, quindi, è sempre impegnarci perché serva a dare forma alla nostra felicità.
Il dono del talento per gli altri
Non solo. Una volta riconosciuto e messo a frutto il proprio talento, sarà possibile fare in modo che il dono del talento non sia solo quello che riceviamo, ma anche quello che offriamo. Talento infatti non è soltanto quella capacità che ci fa sentire realizzati sul piano personale, ma anche – e forse soprattutto – quello che possiamo mettere a disposizione. Sono talenti anche quelli dell’ascolto, della pazienza e del tempo che dedichiamo ad altri, ma anche tutti quei talenti che pensiamo si riferiscano a noi soltanto. Quanti sono gli artisti o gli atleti, ad esempio che hanno usato il loro talento per fare qualcosa per gli altri? Il cestista italo argentino Bruno Cerella, da più di quindici anni campione della serie A di Basket, ad esempio, ha fatto del suo talento una associazione. Si chiama Slums Dunk (fa il verso a slam dunk, “schiacciata”, con la parola slums, le baraccopoli fatiscienti e degradate ai margini delle grandi megalopoli del mondo) e da alcuni anni crea accademie di basket nei paesi poveri, come ad esempio a Mathare, in Kenia. Ecco che il talento che i giovani scoprono e mettono a frutto impegnandosi e allenandosi diventa così uno strumento per vincere, ad esempio, borse di studio per lo sport nei grandi college. Prendono il loro talento e lo fanno moltiplicare, abbbastanza da dar forma a una vita migliore.
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