Uno dei più grandi talenti del calcio mondiale, parte di una dinastia che continua. Una delle ultime bandiere del calcio: all’anagrafe Maldini Paolo
Maldini, Paolo. Un nome un destino
Maldini, Paolo. Figlio di Maldini, Cesare. Un destino scritto nel sangue. Il padre era infatti una bandiera del grande Milan di Nereo Rocco. Collezionava presenze e scudetti soprattutto nelle stagioni 1956/7 e 1958/9, anno in cui con il Milan arriva – prima volta per una italiana – alla finale di Coppa dei Campioni. Veniva da sè che il figlio fosse chiamato quanto meno a seguire le orme del padre. Il giovane erede Maldini, Paolo appunto, entrerà nelle giovanili rossonere a dieci anni. Ci vorrà molto poco a riconoscere il talento del giovanissimo Paolo. A vederlo, in particolare, sarà Nils Liedholm, l’allenatore del Milan che lo manda in campo in un Udinese-Milan del gennaio 1985. Entra in campo un nuovo Maldini, Paolo, anche lui difensore, e la partita finisce uno a uno. Paolo ha 16 anni. La sua storia di vita a quel punto è tracciata. Non finirà le superiori, ma il suo talento non ne ha bisogno. Nasce una nuova bandiera. Il talento gli ha tolto presto l’etichetta del figlio di Cesare e prendere quella della leggenda hanno contribuito molti aspetti: le qualità sul campo, la sicurezza e la leadership, ma anche il record in termini di longevità: 1028 presenze, di cui 902 con la maglia rossonera.
Maldini, Paolo. Lei è consapevole del suo talento?
Quando, come riporta il Corriere della Sera, Maldini ha parlato, in un incontro all’Humanitas, nella sua nuova carriera, quella di dirigente, a esplicita domanda rispetto al talento e alla sua consapevolezza del suo talento, ha risposto: «Da ragazzo non sapevo cosa significasse avere talento, avevo solo una passione. Ho sempre giocato in oratorio. Una volta entrato nelle giovanili del Milan ho imparato a capire come potevo sviluppare il talento che avevo dentro: con talento e dedizione». Nel frattempo, Maldini, Paolo è diventato a sua volta uno dei. Adesso, in campo, c’è un altro Maldini, Daniel. Ma in cosa consisteva il talento sportivo di Paolo Maldini?
Secondo L’Ultimo uomo, di caratteristiche che gli hanno riconosciuto compagni e avversari. La versatilità, prima di tutto, che gli permetteva di ricoprire tutti i ruoli della difesa. E poi, lo diceva il suo compagno di squadra Andriy Shevchenko, due caratteristiche che al talento uniscono grande intelligenza, maturità e consapevolezza: diligenza e capacità di visione. Maldini – Paolo, più del figlio e del padre, sapeva che al talento va unita la capacità di allenarlo, coltivarlo e farlo crescere, e poi l’acutezza di applicarlo guardando avanti, capendo cosa fare un istante prima dei compagni di squadra. Una qualità che gli permetteva di disegnare le giuste traiettorie, di essere sportivamente aggressivo ma mai violento. Le caratteristiche stesse che gli hanno consentito di essere un autentico leader, riconosciuto come tale da tutti i compagni che hanno diviso esperienze, campi e percorsi di vita.
Maldini Paolo, il dirigente: il talento negli altri
Dopo essere stato bandiera del Milan, Maldini – Paolo, s’intende – a Milanello il figlio di Cesare ha avuto una terza vita, tuttora in corso: quella di dirigente sportivo, o meglio di direttore dell’area tecnica. Arrivato nel 2018 tra le incertezze di chi si chiedeva se un talento sul campo può esserlo anche dietro una scrivania, ha dimostrato la capacità di riconoscere il talento e allevare il talento anche osservandolo nei giovanissimi che ha portato a Milano. Anche e soprattutto grazie alla leadership che ha saputo dimostrare sul campo. Com’è il talento visto con gli occhi di un dirigente? Maldini Paolo glissa sul talento dei giovani, incluso l’altro Maldini, Daniel, e si riconosce le stesse qualità che aveva da giocatore. La rapidità di pensiero, prima di tutto.
Quando gli chiedono delle differenze di ruolo e di talento tra giocatore e allenatore, ad esempio, non ha dubbi. Ha dichiara a Pianetamilan: “Nel mio ruolo bisogna pensare a 200. Da calciatore devi pensare solo a te stesso, ma quando sei un capitano sei responsabile anche di altre cose al di fuori della tua sfera. La verità è che, come giocatore, ti alleni, giochi e vai a casa. È un lavoro duro ma è concentrato in un breve lasso di tempo. Il ruolo dell’allenatore in particolare è cambiato negli ultimi 15 anni. C’è stato un tempo in cui l’allenatore si presentava un’ora prima dell’allenamento e se ne andava con i giocatori. Ora, se c’è una seduta alle cinque, entra alle nove di mattina, prepara tutto e torna a casa alle nove di sera. Un direttore tecnico ha due ruoli: innanzitutto c’è il lavoro in ufficio, il mercato è aperto tutto l’anno, quindi incontri agenti e persone che lavorano nel calcio. Poi c’è il lato sportivo e quindi vai a vedere l’allenamento. Siamo in stretto contatto con il team. Poi vai alle partite”.
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