Il tema della scuola negli anni della pandemia è tornato centrale, perchè sono stati messi alla prova in modo importante anche i talenti: come deve agire la pedagogia nei loro confronti, e come confrontarsi con gli allievi molto dotati?
In molti si sono espressi sulla scuola, soprattutto negli anni appena trascorsi, in cui la pandemia ha penalizzato le scuole e i suoi studenti probabilmente in modo maggiore rispetto alle altre fasce sociali. Moltissimi alunni hanno sofferto e scontano grandi frustrazioni, fatiche importanti ad apprendere e a rendere, stress e carico emotivo. Come aiutare, soprattutto adesso chi fa fatica, ma non solo? La pedagogia se lo deve chiedere, ma si pone da tempo anche il tema del talento: accanto a chi soffre in maniera particolare le fasi di apprendimento, ma anche per chi, in condizioni normali, era invece capace di grandi risultati, e pertanto forse se li attende da se stesso. Come si possono sostenere, quindi, anche i plusdotati? Sono molti i lati da cui osservare il tema del talento nella scuola
Il talento nella scuola o la sua assenza secondo D’Avenia
Alessandro D’Avenia, giornalista, scrittore, ma soprattutto insegnante di scuola media, è uno degli autori italiani che maggiormente prendono parola sulla scuola, cercando di prendere le parti dei ragazzi e di ascoltarne le voci. Lo ha fatto soprattutto in questi anni. E – tra le altre cose, in uno dei suoi articoli ospitati sovente sul Corriere della Sera ha scritto anche di talento. “parola vitale divenuta mortifera”, scrive. Rievoca infatti le parole di un suo studente, a cui il termine talento suscitava timore, perchè lo associava a una fame di successo a tutti i costi che, soprattutto in questi anni di promesse mancate, ha creato enormi frustrazioni. Ma è questo il talento nella scuola?
Richiamandosi alla parabola evangelica, il docente corregge il senso del concetto di talento, nella scuola e non solo: “Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? I talenti non sono «le capacità», ma ciò che ciascuno riceve «secondo la sua capacità». Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della performance”. Una lettura totalmente opposta, invece, quella del professore: “Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace».
La pedagogia per coltivare il talento nella scuola
Secondo il prof scrittore, quindi, docenti ed educatori devono saper coltivare quello che rende vivaci i ragazzi che accompagnano. Si chiede: “Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?” Esiste una parte della pedagogia che si occupa proprio di sviluppare il talento nella scuola: la pedagogia dei talenti. Secondo Manes, associazione che si occupa di sviluppo in ambito scolastico e formazione, la scuola è un luogo che troppo spesso non riesce a far scoprire talenti agli alunni, soprattutto quelli che per diverse ragioni non hanno occasioni di fare attività fuori dalle mura scolastiche.
Occorre quindi che fin da piccoli i bambini siano aiutati a trovare il proprio talento per poterlo sviluppare in modo sereno. Il primo passo è essere vivaci, come detto sopra. Bisogna quindi che il bambino sperimenti molto, in ambiti diversi, per trovare serenamente quel che solletica la sua passione e le sue competenze. Ma senza fretta. Crescendo, poi, viene la scoperta che ad alimentare le attitudini sono fortissime passioni. Poterle vivere intensamente dà la possibilità di portare nella vita futura semi altamente fertili da approfondire da adulti. “La fiducia degli adulti, la poliedricità delle esperienze fatte e l’atmosfera di condivisione in cui si sarà cresciuti diverrà fondamentale per riuscire a trovare i modi per vivificare i lavori che si andranno ad eseguire”, spiega il professor Danilo Casertano. Anche a questo, oltre che al benessere, serve scovare il talento nella scuola.
Il talento nella scuola di chi ha un alto potenziale
La scuola ha un compito delicato, e spesso poco considerato. Quello di permettere a tutti di imparare, sviluppando le proprie competenze ma senza creare disuguaglianze. Quando si parla di talento nella scuola è importante considerare che esistono anche alunni particolarmente dotati. Quelli che hanno il cosiddetto alto potenziale. Come gestirlo senza che la classe ne soffra o che vengano confusi per allievi distratti o annoiati? Spesso, infatti, il passo difficile è riconoscerli. Spiegano dalla Rete “Alto potenziale” che “bambini con un alto potenziale cognitivo vengono emarginati ed esclusi dalla società e la scuola non sempre è in grado di riconoscerli. Da qui l’importanza di preparare gli insegnanti a individuare le caratteristiche di questi bambini attraverso un lavoro di formazione”. Non di rado, infatti, questa plusdotazione non viene colta da educatori inesperti al tema, e accade che questi bambini vengano fraintesi o rimandati ad un livello medico da cui escono con diagnosi sbagliate di disturbo dell’attenzione.
Per aiutare il talento nella scuola di un bambino plusdotato, quindi, occorre un lavoro di orientamento specifico per aiutarli a sviluppare e riconoscere il proprio talento, senza provocare sofferenza: “È un mondo poco conosciuto, fatto di perdita di autostima, abbandono scolastico e isolamento sociale. Tra un bambino brillante e uno plusdotato ci sono alcune differenze, difficili però da riconoscere, anche agli occhi più esperti. Secondo le ultime stime disponibili, i bambini plusdotati, con un quoziente d’intelligenza superiore a 130, rappresentano il 2% della popolazione scolastica. Se però si considerano anche i bambini ad alto potenziale cognitivo, con un quoziente tra 120 e 129, si arriva a circa l’8%. Numeri – e storie di vita – tutt’altro che trascurabili.