Filippo Galli, storico difensore del Milan, ci racconta il suo percorso

filippo galli milan

Cos’è il talento, e come si sviluppa?

Lo abbiamo chiesto a Filippo Galli, ex giocatore del Milan, che dopo aver appeso le scarpette al chiodo di talenti ne ha coltivati molti come responsabile del settore giovanile rossonero, e oggi insegna ai responsabili dei settori giovanili italiani come riconoscere e accompagnare un talento a dare il meglio di sé. Lo ha incontrato il nostro Issa Seganga.

Stiamo conducendo uno studio sul talento: vogliamo capire se il talento viene dalla persona, dalla famiglia o dall’ambiente in cui si cresce. Per questo invitiamo persone con esperienza e talento per scoprire cos’è. Vorremmo conoscere la tua storia, perché parla anche di talento

Ho iniziato a giocare a calcio sin da piccolo, a cinque o sei anni, l’età tipica in cui ti danno un pallone. Il primo sport organizzato è stata però la ginnastica artistica. Uno sport di disciplina, che mi ha aiutato anche nella coordinazione. Il mio percorso calcistico è iniziato tardi, solo a undici anni in una società, quella del paese. Prima avevo giocato solo nel cortile di casa con gli amici o negli spazi verdi, che erano molti più di oggi, o all’oratorio. Contesti insomma dove giocare liberamente. Ho iniziato a 11 anni e sono arrivato al Milan a quasi 16, facendo l’ultimo “tratto” di settore giovanile. Quello che mi ha più aiutato però è stata la possibilità di esprimere il talento attraverso il gioco libero, acquisire delle competenze che solo il gioco libero ti può dare. Dopo ho avuto la fortuna di andare a Pescara, in Serie C, abbiamo vinto il campionato e il Milan mi ha richiamato. Dalla stagione 83/84 fino al 96/97 sono stato al Milan, per quattordici stagioni in prima squadra. Poi ho fatto altre esperienze: due anni a Reggio Emilia, tre a Brescia, uno in Inghilterra, al Watford, in Championship, la serie B inglese. Una squadra il cui presidente era Elton John. Esperienze importanti per la mia crescita.

Dopo l’AC Milan mi ha chiamato come responsabile del settore giovanile, dal 2010 al 30 giugno 2018. Dopo nove stagioni una l’ho passata al di fuori, cercando di formarmi ancora, di conoscere nuove realtà di lavoro. Dal 1 settembre sono un consulente tecnico della FIGC, grazie a Demetrio Albertini, e faccio parte di una commissione per lo sviluppo del calcio giovanile, e sono responsabile di un corso per responsabili di settore giovanile appena iniziato in Federazione.
Ho avuto a che fare con tanti talenti, e quello che posso dire per averlo vissuto e visto è che il talento sia una somma. Ci sono aspetti genetici, ma oggi tutti possiamo essere d’accordo sul fatto che il contesto in cui la persona vive influenzi il manifestarsi o meno di un talento.

 

Abbiamo esordito parlando di talento, ma quali sono le caratteristiche che si riescono a vedere subito?

A me piace di più accompagnare, i talenti. Ma un talento in genere si riconosce quando genera un’emozione forte vedendolo fare un esercizio, o suonare uno strumento, o disegnare. La varietà di talenti è enorme.

Nella mia crescita ci sono stati tanti anni di calcio. Il confronto con molti compagni, allenatori. Da giocatore era difficile vedere quali fossero gli aspetti positivi o negativi di avere un talento. C’è chi a quindici, sedici anni ha la mentalità e la dote di un talento. C’è chi ha bisogno di chi lo motivi.

 

Riusciresti a spiegare a un ragazzo come gestire un talento?

Bisogna parlare agli adulti che hanno a che fare con loro. Far capire che questi ragazzi vanno messi in un contesto in cui si possano sviluppare al massimo delle loro potenzialità. Raramente il talento calcistico viene messo in queste condizioni, in particolare di giocare. Quando un bambino ti dà l’emozione del talento in genere lo stai vedendo in un contesto di gioco, ma spesso il percorso che gli viene fatto fare è lontano dal gioco vero e proprio. Si fa spesso una serie di esercitazioni che a mio avviso vanno lontano dalla realizzazione o dal creare un percorso corretto.

 

Quanto può contare la famiglia per supportare un ragazzo di talento?

Spesso ci facciamo fuorviare dallo slogan “Mettere il ragazzo al centro del progetto”. Al centro ci deve essere il contesto, fatto di persone e relazioni. La famiglia, tutti gli adulti che permettono al ragazzo di realizzarsi. È importante la cornice “macro” – la società sportiva, il contesto culturale – come quella “micro”, legata agli amici, alla famiglia, le persone più vicine. Sono tutti aspetti che concorrono alla realizzazione di un talento e al suo palesarsi.

Il concetto di talento è culturale. Capire di avere un talento offre delle linee guida. Spesso però è un’idea fumosa.

Secondo te il talento è legato alla determinazione o è abilità tecnica pura?

Credo che la capacità di apprendimento e di continuo miglioramento faccia parte del talento o sia anch’essa un talento. Chi è bravo sa autoregolarsi e migliorarsi. Ci sono giocatori che da adolescenti erano più bravi dei loro coetanei ma poi non sono migliorati crescendo. E questo può creare delle problematiche, perché se non sei supportato da un contesto non sempre riesci a capire che ci sono dei momenti in cui l’impegno non è sufficiente. L’impegno è la base necessaria, ma non è detto che basti a raggiungere grandi risultati.

 

A che età sei entrato nel Milan?

Io ero in ritardo su tutto, perché ci sono arrivato sedicenne, per poi andare in prestito in C a diciannove. Però allora il contesto sociale era diverso – uso spesso il termine contesto, ma perché conta! Io ho potuto giocare coi miei amici in contesti che mettevano alla prova ma creavano situazioni da risolvere. Questo mi ha permesso di crescere, perché ho avuto spesso compagni di gioco più grandi e ho dovuto trovare degli adattamenti che mi hanno permesso di crescere anche se non ero all’interno di una società professionistica sin da piccolo come altri.

 

Da tifoso ti ho seguito molto. In squadra avevi Baresi e Gullit, hai giocato contro Platini e Maradona, Zico…quali erano le differenze fra di loro?

Sicuramente erano tutti giocatori di talento. In particolare il loro era quello di essere efficaci in campo e spesso stupire con le loro giocate. A volte gli allenatori pensano di programmare tutto, poi arriva il ragazzino, il giocatore che trova soluzioni diverse da quelle preordinate. A quel punto devi dare spazio al talento e consentirgli di esprimersi. Il talento è creativo, il talento è anche conflittuale, per cui anche la capacità di gestire il conflitto è fondamentale per chi lavora coi giovani.

 

Puoi dare un consiglio a un ragazzino su come porsi rispetto al talento?

Credo che qualsiasi sia l’attività che un ragazzo o una ragazza fa servano figure adulte che lo formino. È importante conoscere quello che si fa, quindi per chi gioca a calcio capirne di calcio, oltre a giocarlo, non pensare di essere il depositario della verità, ma conoscerne i valori educativi e personali. L’idea della performance non è staccata dai valori. Se fai sport bene trasmetti anche dei valori, se non lo fai lo sport da inclusivo diventa esclusivo.

Un ragazzo di talento, se viene educato nella maniera giusta, sarà un talento più forte. Consapevole del suo valore rispetto alla squadra, ma a cui la squadra riconosce il suo valore perché si mette a disposizione degli altri. Anche gli sport individuali non lo sono mai del tutto. C’è sempre un insieme di relazioni fondamentali per stabilire un corretto percorso. Per questo agli adulti si chiede di formarsi comprendendo i valori presenti sul piano dell’apprendimento

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