Viaggio storico alla scoperta della triplice valenza del talento

valenza del talento

Si fa sempre un gran parlare, spesso a sproposito, del concetto di talento e di come questo possa essere scoperto, coltivato e possa indirizzare la nostra esistenza.

Ad essere sinceri la confusione generata da questo termine è del tutto comprensibile, dato che tuttora sembra non essere completamente chiara la definizione entro la quale collocarlo: si parla di una capacità da coltivare o di una semplice inclinazione personale? È generata dagli stimoli esterni o è innata? È un’attitudine, un’abilità o un comportamento osservabile?

Come spesso capita, per tentare di rispondere a tali quesiti, è necessario risalire all’origine del termine che li ha generati, ripercorrere la sua storia e conoscerne gli eventi maggiormente salienti.

 

Bilancia nel Talento

 

Il talento fa la sua comparsa nella storia dell’uomo come unità di misura del peso: con il termine greco (ereditato da tradizioni assire e babilonesi) tàlanton,  si intende proprio l’inclinazione generata da un carico su uno dei due piatti di una bilancia.

Ecco la prima accezione di talento: una pendenza, un’inclinazione e una direzione indicata: il talento è visto come un segnale da seguire per realizzarsi, una via preferenziale che abbiamo per raggiungere i nostri obiettivi, un centro dove convergono i nostri interessi e le nostre vicende di vita in virtù di una certa “pendenza”.

Proprio il concetto di pendenza – intesa come proprietà fisica di un piano inclinato – si rifà il termine epicureo “clinamen” che rappresenta la deviazione spontanea e casuale che permette agli oggetti sottoposti ad una forza parallela di incontrarsi. Detto ciò, non si vuole dimostrare una sorta di innatismo, né la presenza di un destino che tutto prevede, ma solo indicare una tendenza più auspicabile e probabile delle altre.

L’inclinazione è, quindi, il presupposto per il generarsi di un’interazione che porta a percorrere traiettorie imprevedibili, ma sempre dirette in una certa direzione.

 

Moneta nel Talento

 

Se in un primo momento storico rappresentava l’inclinazione della bilancia, a poco a poco ha preso il nome della sua causa, ossia il peso che la generava, ed in seguito questo peso è stato convertito in valore: un talento (moneta in uso a partire dal 400 A.C.) poteva essere scambiata con circa 26 kg di argento purissimo o con 6000 dracme.

Durante la guerra del Peloponneso una dracma era lo stipendio giornaliero di un vogatore su un’imbarcazione e quindi si può ben capire sia quanto cospicuo fosse il valore di questa valuta, sia in che  modo abbia facilmente  acquisito un valore simbolico, legato proprio alla sua caratteristica principale: l’essere oggetto di uno scambio  proficuo.

Nelle vesti di una moneta il talento ci mostra una sua nuova caratteristica, ossia il fatto di rappresentare una ricchezza potenziale, che diventa reale solo nell’interazione fra persone che gli riconoscono un valore.

Ecco che il talento passa da essere una tendenza ingestibile ad un valore socialmente attivabile, che non deve solo essere riconosciuto e assecondato, ma che risente del contesto, si adatta alle situazioni e si modula sulle persone che interagiscono con esso.

 

Parabola nel Talento

 

Con tutta probabilità dobbiamo l’accezione moderna di talento alla sua comparsa nella parabola biblica e si è sviluppato da quella in una sorta di evoluzione semantica.

Questa parabola racconta di un padrone che assegna diverse somme di denaro (per l’appunto, dei talenti) a 3 dei suoi servitori e torna dopo un lungo viaggio per vedere cosa ne hanno fatto. Mentre i primi due, che avevano ricevuto una somma maggiore, l’hanno investita e ne hanno raddoppiato il valore, il terzo -impaurito dalla severità del padrone – lo ha semplicemente sotterrato in modo da poterlo restituire al padrone così come lo aveva ricevuto. Il padrone, allora, si congratula con i servitori intraprendenti e punisce il servitore pigro.

Al di là del messaggio teologico, questa parabola dà al talento un’ulteriore caratteristica che ci consente di completare il puzzle che ci mostra il significato complessivo di questo termine: il talento richiede impegno. Il padrone redarguisce il servitore dicendogli che anche solo prestando la moneta che gli aveva assegnato ne avrebbe ricavato un certo interesse, facendo intendere che chi non fa fruttare i propri talenti è carente di fiducia, di intraprendenza e creatività.

Il suo valore, se non viene coltivato, non è tangibile, non emerge e può rimanere tacito per tutta la vita, anche nonostante la nostra inclinazione e il fatto che gli altri ci riconoscano una certa qualità. Il talento, per diventare tale, richiede in primis un certo livello di consapevolezza e responsabilità, e solo dopo una laboriosità ed audacia.

 

3 idee di talento

 

Già 2000 anni orsono, la storia del talento si presentava con una triplice identità: la bilancia ne chiarisce la forza motrice, la moneta il valore condiviso e la parabola apre alla questione dello sviluppo. E ognuna di queste rappresentazioni può essere vista in sintonia con le altre due, in modo da generare una visione più completa di questo termine così difficile da decifrare.

È innegabile che qualcuno nasca con una predisposizione naturale a determinate attività e per seguire questa inclinazione ha bisogno di orientamento: di scoprire quale direzione prende la pendenza della sua vita. Tuttavia, bisogna riconoscere che il la propria abilità è un qualcosa di agito in un contesto sociale, soggetto a sollecitazioni ambientali e contestuali che ne determinano sia il riconoscimento e ne riconoscono il valore. Infine, il talento richiede di far rendere il valore che abbiamo in potenza e di farlo con impegno e coraggio.

Anche se spesso viene dimenticato, sappiamo da millenni che non è selezionando il migliore tra una platea di concorrenti che si trova il talento, ma coniugando orientamento, conferma sociale e sostegno nella fase di sviluppo del talento. Allora, e solo allora, si potrà dire che si sta sostenendo il talento.

 


 

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